La luce filtra attraverso il verde delle foglie e crea ombra alle rose che mi guardano. Eppure, nonostante il godimento di questo estemporaneo incanto, io sono anni luce altrove, dietro le reminiscenti sbarre di un torbido cordoglio. Ascolto note e le trasporto via, rubandole all’aria, poi, impavida mi immergo in un relitto e trattengo aria e lacrime restando aggrappata al fondale. È strano. Siamo attratti da ciò che non è più, proprio nel momento in cui ci pensiamo di essere fuori da ogni nostalgia. Rifuggiamo noi stessi là dove ci sia la consapevolezza di una quiete. Non è questo forse quello che realmente cerchiamo, non è questo che la primordialità ci impone. Siamo fatti per essere tempesta, per affondare e poi riemergere senza mai smettere di fluttuare tra le onde. Oggi potrei ancora una volta resistere all’efferatezza di quell’istante che mi sconvolse anima e viscere, però no, oggi ci sguazzo, e mi ci confondo dentro addirittura perché che io lo taccia a me stessa oppure no, è il bisogno di non fermare il moto ondoso che urla dentro di me la sua inarrestabile foga.

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